Questo resoconto vi deluderà, siete avvertiti. Troppo frammentario e non conclusivo. La gente vuole sapere, lo so. Bisogna dare spiegazioni complete, o tacere; lo so.

Ritornerò sull’argomento, lo prometto, ma sarà necessario viaggiare, raccogliere materiali, parlare con persone. Occorreranno anni. Per ora queste note raccattate su internet e raschiate dal fondo dei miei ricordi di studente devono bastare. E pensare che ho dei libri sull’argomento che mi sarebbero utilissimi, rinchiusi in casse polverose in un garage nelle colline aride della California del nord.

Bisogna che vada a memoria. Io, che mi dimentico di comprare il pane e portare le camicie in lavanderia.

 

 

Il 26 Settembre 1940 Walter Benjamin muore, a Portbou, in Catalogna.

Emorragia cerebrale, recita il certificato medico a cui nessuno crede.

Suicidio, si disse: per evitare di cadere nelle mani dei nazisti che erano sulle sue tracce. Ci sono testimoni. Non del momento della morte, ma di quanto è accaduto in quei giorni, prima e dopo. Overdose di morfina, dicono alcuni. Trentuno pastiglie di sonnifero, altri.

Walter Benjamin era uno scrittore, ben conosciuto in ambienti intellettuali anche se non molto noto al pubblico. Oggi è più popolare di allora.

Un marxista, il più eccentrico che ci sia stato. Un critico letterario, uno studioso della Kabbalah e della storia dell’arte, uno scrupoloso osservatore degli effetti dell’hashish, che sperimentava generosamente su se stesso e annotava in accurati e minuziosi protocolli. La lista degli amici famosi che condividevano i suoi circoli sarebbe lunga, così farò un solo nome: Bertold Brecht.

Cittadino tedesco, ebreo, ventotto cambi di indirizzo in sette anni di esilio in Francia, prima a Parigi, poi sempre più a sud, mai separato dal piccolo involto di carta di giornale che conteneva sessantadue pastiglie di sedativo, che a nessun controllo avrebbero potuto contestargli, ma che sarebbero bastate a farla finita in fretta in caso di necessità. Un bicchier d’acqua e via.

Qualche settimana prima del giorno della sua morte, Benjamin era giunto a Marsiglia, dove aveva incontrato diversi conoscenti, tra cui l’amica scrittrice Hannah Arendt. Lì gli fu assicurato un visto per gli Stati Uniti. Per ritirarlo avrebbe dovuto però spostarsi in Spagna, cosa che poteva fare solo clandestinamente. Lì conobbe una giovane donna, Lisa Fittko, e suo marito Hans. Lisa non era una guida e nemmeno conosceva bene il territorio, ma a seguito della pressante e lusinghiera amicizia con un ufficiale del luogo aveva ricevuto una rudimentale mappa tracciata a mano che riproduceva un passaggio tra le montagne, e si riteneva in grado di guidare invisibilmente un gruppetto di transfughi fino in territorio spagnolo.

Il passaggio era impervio, a malapena visibile, nascosto dalle rocce, ostruito da frane. Il militare che le aveva schizzato la cartina le aveva suggerito di tentare la prima metà della strada di giorno, fingendo una passeggiata, tornare nel pomeriggio come tranquilli turisti; e la notte, conoscendo meglio il percorso, ricalcare la traccia e tentare la fuga vera. Il piano includeva Lisa Fittko, Walter Benjamin, la fotografa Henny Gurland e suo figlio Joseph.

Alla finta passeggiata Benjamin si presentò col colletto inamidato, la stretta giacca da professore e una pesante valigia, che, disse, conteneva un manoscritto più importante della sua persona e della sua vita. Procedette ansimando per ore, col suo pesante fardello nella destra, nella sinistra, nelle due mani insieme, infine su una spalla, per quel sentiero che si rivelò quasi impraticabile. Aveva quarantotto anni, ma ne dimostrava dieci di più. I compagni lo guardavano preoccupati. Sapevano che era malato di cuore.

Quando fu ora di tornare, Benjamin si rifiutò. Pallido, ansimante, gli occhi cerchiati, disse che avrebbe dormito lì, tra i pini, e li avrebbe attesi il mattino seguente.

Il mattino seguente lo raggiunsero e lo trovarono infreddolito, gli occhi pesti, a stento capace di affrontare con loro il resto del percorso, che era tutto in salita ripida. Riuscirono comunque a raggiungere la cima della montagna, da cui videro la Spagna e i Mediterraneo. Tre uomini li aspettavano nella vallata sottostante, al loro apparire fecero volare i cappelli. Erano in Territorio spagnolo. Walter Benjamin si accasciò e si dovette aspettare che i tre compari portassero acqua, e lo trascinassero in spalla sino alla pianura, al paese.

 

Walter Benjamin ebbe una singolare puntualità nell’incontrare il proprio destino. Nel giorno esatto che passò il confine spagnolo, le leggi sull’immigrazione cambiarono. Chiunque entrava doveva essere detenuto, la polizia spagnola gli ritirò il visto di transito. Senza il documento l’ebreo Benjamin sarebbe stato estradato in Francia, in quel momento occupata dai nazisti, e immediatamente internato in un campo di lavoro.

Questa legge fu cancellata subito dopo. Già dal giorno successivo vennero fatte ampie eccezioni. Come scrisse Hannah Arendt: “Un giorno prima e Benjamin sarebbe entrato senza alcun problema; un giorno dopo e gli amici a Marsiglia avrebbero saputo che non sarebbe stato possibile entrare legalmente in Spagna. Solo in quel particolare giorno la catastrofe fu possibile”.

Del visto per gli Stati Uniti che gli avevano promesso come imminente, che avrebbe anzi dovuto essere già arrivato al suo segreto indirizzo spagnolo, non c’era notizia. Dicono che fu preso dal panico. Che fosse terrorizzato da ciò che i nazisti avrebbero potuto fargli. Lo racconta Arthur Koestler, che lo aveva incontrato qualche tempo prima: il momento in cui Benjamin si lasciò convincere e levò di tasca il cartoccio e divise a metà il suo prezioso nepente, lasciandogliene trentuno, in un patto silenzioso, nel cerimoniale dimesso e frettoloso dei braccati che non vogliono dare nell’occhio.

Trentuno pastiglie bastarono, se vogliamo credere a questa versione della storia.

Il visto per gli USA arrivò il giorno dopo. Se l’ala dell’angelo della morte avesse atteso una notte sola, Benjamin avrebbe vissuto molti anni ancora, un rispettabile esilio da intellettuale a New York o Los Angeles. Se. Quanti se.

Possibile è solo ciò che accade, scrisse Kafka, che Benjamin lesse e studiò per tutta la vita. E anche: c’è salvezza in abbondanza. Ma non per noi.

 

Da studente mi capitò di portare un suo libriccino ad un esame: estetica.

Il titolo era quasi più lungo del libro: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. La sua tesi: semplice, affascinante e misteriosa. Di un quadro di Leonardo abbiamo una copia sola. Di una fotografia di Man Ray, tante quante ne vogliamo. Una foto è tecnicamente riproducibile.

Possiamo dire che qualcosa si perde quando l’arte si può riprodurre? Sì, dice Benjamin: la sua aura. Cosa sia l’aura non lo definisce chiaramente, ci lascia con descrizioni oscure quali una strana rete di spazio e tempo; oppure una distanza la più vicina possibile. Restiamo incerti se sia qualcosa nella nostra mente, una forma di rispetto che ne ingigantisce il valore, o una caratteristica fisica dell’oggetto, come quelle sfere e circoli che circondano il capo di Buddha e Madonne e ne segnano certamente l’infinita distanza, per quanto vicini possano essere.

Ricordo che da ragazzo questo argomento, così com’era, non definito e non misurabile, mi convinse immediatamente. Tempo dopo, lessi che di Van Gogh aveva detto qualcosa come: dipinge direttamente l’aura delle cose. Ora che vivo ad Amsterdam, e con il mio tesserino azzurro entro ed esco quando voglio nei musei, e la domenica pomeriggio mi prendo un quarto d’ora per assaporare tre quadri, devo dire che lo vedo. Riesco a scorgere come un fantasma la traccia dell’anima infuocata di Vincent Van Gogh, i suoi occhi irrequieti che trapassano la rassicurante scorza materiale per andare a immergersi in un mondo di energia, vivo e pericoloso, diretto, urticante, un bagno nella calce viva, una guerra di colori complementari che non lascia terreno solido sotto ai piedi, non riesce a coabitare con la rete di descrizioni faticosamente condivise in cui ci teniamo avviluppati e che chiamiamo salute mentale; e alla lunga mette la nostra vita in pericolo.

Image

Per quasi tutta la vita Benjamin tenne appeso nel suo studio, davanti a sé, un quadro di Paul Klee, intitolato Angelus Novus.

L’angelo è avvolto in una indubitabile aura, sospeso in un’espressione tra impotenza, compassione e terrore. Sembra sul punto di tornare sui suoi passi, preso dalla sofferenza e compatimento per ciò che vede. L’incubo della guerra, della storia, l’orrore nazista, la piega estrema della natura dell’uomo. A lui tutto il peso di questa visione. Noi non vediamo che lui.

“Ciò che l’uomo percepisce come storia”, disse Gershom Scholem, grande amico di Benjamin, “L’angelo vede come deflagrazione. Dove ci appare una catena di eventi, una sola grande catastrofe. L’angelo vorrebbe rimanere, risvegliare i morti e ricostruire ciò che è distrutto. Ma una tempesta giunge alle sue spalle dal paradiso e non gli consente di chiudere le ali. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente verso il futuro a cui volta le spalle, mentre di fronte a lui un monte di detriti si alza al cielo”.

Ciò che chiamiamo progresso, conclude Scholem, è questa tempesta.

 

Non ho ancora affrontato la parte più confusa, quella dove anche del suicidio si dubita. Ora bisognerà che lo faccia.

So davvero poco. Frammenti che posso solo elencare e accostare. Che il marito di Lisa Fittko fu in seguito riconosciuto come una spia stalinista. Che il confine tra Francia e Spagna a quell’epoca pullulava di spie, incaricate di far sparire qualunque intellettuale dalle teorie pericolose. Che entrambi si rivelarono associati a un’organizzazione chiamata New Beginning.

Che il marito di Henny Gurland ne era ugualmente implicato. Che anche l’uomo che aveva scoperto quell’impervio passaggio nelle montagne, il colonnello Lister, ne era anche lui un associato.

Che Henny Gurland racconta che il mattino del 26 settembre, nell’alberghetto in Catalogna in cui erano un po’ ospiti e un po’ prigionieri, Benjamin la mandò a chiamare nella sua stanza. Che le aprì la porta, magro e sudato, dicendo che la sera prima, esattamente alle dieci, aveva preso abbastanza morfina da abbattere un cavallo. E che poco dopo svenne, davanti a lei, e non si riebbe più.

Che qualcuno disse che è poco credibile che si prenda una overdose di morfina alle dieci di sera e ne subisca l’effetto soltanto la mattina dopo.

Che Benjamin le aveva lasciato delle lettere, che Henny distrusse per sicurezza, e che solo dopo settimane riscrisse, ripescandole dalla propria memoria, in francese, lingua che Benjamin non avrebbe mai usato, e le recapitò agli amici più stretti. Che in quelle lettere si descriveva la città di Portbou come un piccolo villaggio dei Pirenei, mentre è una città piuttosto grande e non troppo vicina a quelle montagne, cosa che Benjamin sapeva bene.

Che nessuno trovò mai la valigia con il prezioso manoscritto. Che si dice il manoscritto si intitolasse Filosofia della Storia, e che contenesse una sconfessione del marxismo e una dura condanna dell’opera di Stalin. Che il signor Koestler, che aveva parlato di sessantadue pastiglie di sonnifero in un suo libro, in un altro articolo le fa diventare cinquanta e in un terzo trenta. Che Koestler fosse privatamente nel mirino del controspionaggio stalinista lo comprovano numerosi dossier. Che Benjamin e Koestler avessero passato molto tempo insieme a Marsiglia, in locali pubblici, giocando a poker e raccontandosi le rispettive vite, è certo. Che l’agente Rudolf Roessler, nome in codice “Lucy”, lo teneva d’occhio da tempo. Chiunque seguisse Koestler si imbatté necessariamente in Benjamin. Immagino Roessler che guarda una fotografia dei due uomini seduti in un caffè all’aperto mentre si dividono un mucchietto di pastiglie di sedativo. Una sessantina, ad occhio e croce.

Che dopo la sua morte al resto del gruppo fu immediatamente revocato il foglio di via e fu concesso loro di rimanere in Spagna quanto volevano. Che Benjamin fu sepolto con rito cattolico nella parte cattolica del cimitero di Portbou, che pure aveva un’area ebraica. Che, quando l’amica Hannah Arendt venne a visitare la tomba quattro mesi dopo, non le fu possibile trovare alcuna tomba né alcuna traccia del nome di Benjamin.

 

Walter Benjamin scrisse un racconto dedicato all’angelo che aveva avuto di fronte a sé per tutta la vita. Lo intitolò Agesilaus Santander, in tedesco un anagramma di Angelus Satana. Se ricordo bene, il racconto termina con la frase – per tornare con te in quel futuro da cui siamo venuti.