Da oltre un’ora sto seduto immobile, fisso il tavolo.

È un tavolo ordinato. Non un filo di polvere. Una pila di fogli bianchi. Una stilografica. Un computer portatile, chiuso.

L’astuccio delle lenti a contatto, una scatolina di plastica bianca e blu. Ogni trenta giorni ne compro uno nuovo, sempre uguale, nel negozio sotto casa. Questione di igiene. Questo ce l’ho da diciassette giorni. Ho segnato sul calendario quando lo dovrò ricomprare.

Sento la porta che si apre, Marta è rientrata. Le undici di sera. Ultimamente ha un sacco di riunioni di lavoro che la trattengono fino a tardi. Oppure mi tradisce, chissà.

Sento che getta la valigetta sul tavolo di cucina, il vaso dei fiori trema. Stanca e irritata. Ecco, apre il frigo. Stappa una birra, butta qualcosa nel microonde. Lo ingurgiterà in fretta, la farà star male domani e questo la renderà ancora più furiosa.

Non deve vedermi così, inerte come una tartaruga che incamera il sole. Forza. Devo fare qualcosa. Presto sarà su da me.

Prendo in mano la scatolina delle lenti a contatto. Dopo qualche ora il liquido si solidifica, chissà perché. Lascia una patina bianca, gommosa, un residuo semisolido lungo le strisce oblique della filettatura. Non mi piace pensare che quella stessa sostanza ogni mattina entra a contatto coi miei occhi. Svito i piccoli tappi con estrema delicatezza, li dispongo ordinatamente. Il tappo della lente sinistra a sinistra, quello della lente destra a destra, non troppo vicino alla stilografica (la mera vicinanza del potenziale nero della penna mi sembra pericolosamente impura). Ho una mia procedura a prova di errore. È necessaria: se scambio le lenti è un problema. I miei occhi sono diversi tra loro. Non tanto da accorgermene subito, quando le indosso, ma abbastanza da procurarmi un feroce mal di testa al termine della giornata.

Marta è sulle scale. Passi pesanti che fanno tre gradini per volta. Come fa una così piccola e magra a far tremare così la casa. Spalanca la porta del mio studio.

“Aldo! Sei lì?”

Sempre così. Per lei è normale. Mi chiede sempre se sono lì quando vede che sono lì, se sto uscendo quando vede che sto uscendo, se sono in bagno quando sa che sono in bagno. Chissà cosa vuole apprendere veramente. A pensarci, non ricordo che abbia mai fatto domande su qualcosa di cui non sia già al corrente. Peccato, perché per il resto potrebbe passare per un essere ragionevole, quasi equilibrato.

Non riesco a non rispondere, a limitarmi a una ostensione silenziosa, a lasciare che la mia gloriosa presenza si esibisca da sé. “Mmm mmm”, mi sento costretto a dire, il più piano possibile per concederle il minimo della mia energia. Anche se so che se parlo a voce così bassa si irriterà ancora di più.

“Ho messo su una pizza, ne vuoi?”

“No”.

“Ma che stai facendo?”

“Tolgo le lenti a contatto”. Accetto che il fatto che abbia la scatolina davanti a me e stringa tra le dita il tappo destro possa non essere una evidenza conclusiva. Forse Marta è insicura delle proprie percezioni, necessita di essere rassicurata. Forse tutte le sue domande significano: è proprio vero quello che sto vedendo?

Mi mette la bottiglia di birra davanti al naso, faccio segno che non ne voglio. Dice qualcosa, ma non ascolto. Sto osservando la struttura delle bolle nel vano rotondo che ospita la lente. Un anello di bollicine piccole piccole ancorate al bordo, regolarissimo; e al centro un cerchio di bolle molto più grandi. Le conto. Sono nove. Impossibile contare le bolle piccole. Ci provo, ma la vista mi si annebbia. Interessante, però. Devo ricordarmi di guardare su Internet se c’è una legge fisica che controlla questa struttura così regolare. Magari anche questa è una manifestazione dello splendore di qualche principio scovato nell’antichità; diciamo la Sezione Aurea. Così, per dire.

Rovescio il liquido nel cestino delle cartacce. Avrei dovuto svuotarla stamattina, la scatola. Meglio se rimane asciutta e aperta durante il giorno, meno germi. Non bisogna asciugarla, solo lasciarla lì. Più igienico.

“Hai capito quello che ti ho detto?” Marta mi sta fissando, più furiosa che attenta. Decido che posso bluffare. “Ho capito”, rispondo. Chissà di cosa parlava. Forse del lavoro. Magari, ascoltando, avrei davvero potuto capire. Se era in ufficio o con un amante, dico. Ormai.

Non è soddisfatta della mia risposta. Inspira nervosa; mentre sta per parlare, il microonde segnala che la pizza è pronta. Si precipita giù.

Tiro fuori uno specchio dal primo cassetto. Il mio specchietto per togliere le lenti. Piccolissimo. Non mi sono mai abituato a farne senza.

Ha un filo di polvere, lo elimino con lo straccio verde in microfibra.

Partire sempre dalla sinistra, così non ti sbagli.

Guardo pollice e indice stringere delicatamente la morbidissima lente trasparente, levarla dall’occhio un po’ arrossato.

La lascio cadere nella scatola. Ora la destra.

Mi asciugo le mani. Svito il flacone del liquido e riempio la scatolina. Il getto esce storto, che fastidio. Deve essere ancora una volta questa sostanza che si solidifica a contatto con l’aria, avrà ostruito il condotto.

Marta è di nuovo su. Ha con sé il piatto con un rimasuglio di pizza e una bottiglia di birra. Piena. Dev’essere una nuova. Sta bevendo ogni sera, ultimamente.

“Ma che fai?”

“Te l’ho detto. Tolgo le lenti a contatto”.

“Se le stavi togliendo prima”.

“Faccio piano piano. Le tratti bene, durano di più”.

“Aldo, ci vogliono tre secondi a togliersi le lenti. Io sono rientrata, ho scaldato la pizza, ne ho mangiata mezza, ho riempito la vasca e scritto pure due email”.

Fatico a seguirla, impossibile rispondere. Ora devo chiedere la scatola con la massima attenzione. Più difficile, ora che le mie mani hanno preso un leggero tremito.

“Ehi, sveglia! Sono io, Marta. Tua moglie. Tira su quella faccia. Ma che cazzo ci trovi di così interessante in queste stupide lenti?”

Questo non deve dirlo. “Sono interessantissime. Bifocali, lo sai?”

“Ma davvero”, fa lei, sarcastica. Pensa sempre di sapere. Non sa di non sapere.

“Per gli occhiali è facile creare lenti bifocali” continuo, senza staccare gli occhi dalla scatolina. “Sai quali sono, no? Quelle lenti che una volta avevano il taglietto orizzontale, proprio in mezzo. Parte in alto, vedi da lontano. Parte in basso, vedi da vicino”.

“Lo so benissimo cosa sono le lenti bifocali”.

Mi appoggio allo schienale della poltrona, allungo le gambe. “Ma le lenti a contatto si muovono. Non si può fare alto e basso. Allora sai come fanno? Fanno interno ed esterno. La parte interna per vedere da vicino, quella esterna per vedere da lontano. Oppure il contrario, è lo stesso. Anzi, per evitare che gli occhi si abituino troppo rigidamente, che il cervello si atrofizzi, le due lenti sono inverse: se una ha l’interno per vedere da vicino, l’altra ha l’interno per vedere da lontano. Mi segui?”

“Sono tutt’orecchi. È appassionante”. Non nasconde uno sbuffo esasperato.

“Quando mi hanno consegnato le lenti nuove, ho scoperto che il mio occhio sinistro, ci vedeva benissimo alla mattina, ma male alla sera.”

Marta prende un lungo sorso di birra.

“Poi ho scoperto che smettevo di vedere bene sempre alla stessa ora. Le cinque e mezza. Questo è interessante, no? E sai perché?”

“So che stai per dirmelo”.

“In questo periodo le cinque e mezza sono il tramonto. Cala la luce. La pupilla si dilata. La pupilla sinistra raggiunge l’anello esterno della lente, quello fatto per vedere da vicino. E così da lontano tutto appare sfuocato. E io non ci vedo più”.

Marta mi guarda senza espressione.

“Ci sono arrivato da solo, sai? Ho suggerito io una soluzione all’oculista: dopo il tramonto, se devo guidare, tolgo la lente sinistra e ne metto una non bifocale. Una lente usa e getta, da pochi soldi. Vedo maluccio da molto vicino, ma guido da dio. Ho provato: funziona benissimo. Se non devo leggere è perfetta”.

Interrompo la meticolosa asciugatura dell’esterno della scatolina e la guardo. No, non è interessata. Ma qualcosa da dirmi, ce l’ha.

“Io e te dobbiamo parlare, Aldo. Sei cambiato. Te ne stai tutto il giorno qui in studio. Ma so che non lavori, non stai combinando niente.”

“Non è vero…”

“Ho parlato con il tuo capo. Dice che non hai inviato nulla, da settimane. Non prendermi in giro”. Si avvicina a me, il suo viso quasi mi tocca.

“Due cose vorrei sapere. Perché non mi parli? E perché te ne stai tutto il giorno impalato a far niente? Domenica ti ho guardato, l’intero pomeriggio. Hai fissato il tavolo per tre ore. Non esagero, ho controllato. Sembravi un rettile, un fossile”. Sospira, si rialza, guarda nel buio oltre la finestra aperta. “Quanto sei cambiato”.

Non rispondo. Non te lo voglio dire, perché.

Sì, fisso il tavolo. È un tavolo interessante, il mio. La scatola delle lenti. Molto interessante, la scatola. Le bolle misteriose, la struttura delicata e diafana, magica, di quelle due pellicole tonde che mi fanno vedere così bene il vicino e il lontano. Come cambiano i miei pensieri quando ho le lenti e quando non le ho. Pensieri bifocali, fino alle cinque e mezza. Poi, dipende. Si è interessati a ciò che si può vedere, il resto cade in un limbo. Senza lenti, con gli occhi strizzati, vedo bene solo da vicino, ho imparato ad amare le piccole cose a meno di un metro da me. La sbavatura di inchiostro sull’ultima lettera della mia firma su un contratto, la grana stessa di quel foglio, rugosa e regolare come un campo arato, come cartapesta, come la pelle dei vecchi, come la crosta di pane, come un mare increspato. Cose che conosco da quando ero bambino e ancora dovevano scoprire che avevo bisogno di occhiali. Il distante era inaccessibile come il futuro; nel mio mondo entrava solo ciò che potevo vedere: le cose vicinissime. Le asperità e regolarità delle superfici, i colori, le traslucenze. Gli occhi degli insetti. Il movimento dei colori sul pelo dei gatti. La linea della vita nella mia mano sinistra. Il mondo è interessante; altro che rettile, altro che fossile, Marta. Specialmente dopo che il dottore ti ha detto che hai al massimo sei settimane. Ma già, questa è proprio la parte che non intendo dirti.

A pensarci, anche questo mio silenzio è interessante. Perché non voglio dirtelo? Morire, morirò. Prestissimo. Che differenza fa che tu lo sappia oggi, o tra qualche giorno, o quando mi troverai riverso sul tavolo, o a letto con gli occhi chiusi, o magari per terra, in qualche buffa posizione, davanti alla porta del bagno? È un atto di gentilezza il mio, o la consapevolezza che siamo troppo lontani per condividere questa intimità?

Al diavolo. Diciamolo e basta. Sto per aprire la bocca, ma tu sei già fuori, ti scapicolli dalle scale borbottando qualcosa sotto ai denti. Sei sempre stata maledettamente veloce.